Guardo il mio 205 parcheggiato a poca distanza da me, tettuccio aperto, paracadute a cavalcioni del terminale della fusoliera.
E’ pronto per il combattimento, è pronto a portarmi in quota, sui 9000 metri, dove i ragionamenti scompaiono, dove tutto diviene terribilmente semplice: <
tu, il tuo aeroplano, i tuoi cannoncini;
loro, i loro aeroplani, i loro cannoncini.
Se ci sai fare, se hai fortuna, tanta fortuna, torni qui a sederti sul campo, in circolo con i tuoi amici;
se ti va male, gli altri stringeranno il cerchio per illudersi che tu sei ancora presente, ed è l'unico modo per allontanare lo spettro della morte da noi che siamo ad essa predestinati.
Guardo ancora gli aeroplani; ormai sono vecchiotti.
I nostri specialisti, fanno miracoli per darceli sempre efficienti, ma ormai hanno centinaia di ore di volo, sono stati strapazzati violentemente in cento combattimenti.
Quando vai in volo senti che la macchina è stanca, che non arrampica più come prima, che sempre più spesso ha qualche cosa che non va.
Per un pilota il suo aeroplano è tutto e noi soffriamo anche di questo, ma la situazione è quella che è, per cui bisogna « arrangiarsi », come sempre!
Mi alzo e mi avvicino al mio 205, m'appoggio alla sua fusoliera, la tocco con il palmo delle mani per sentire il contatto del metallo, ed è un travaso di reciproca fiducia.
Dopotutto, il Macchi è sempre un bell'aeroplano!