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    Kamikaze

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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:32 pm

    All’alto Comando Imperiale
    Non c’è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori.
    Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale, i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche.
    Di questo corpo desidero assumere io , il comando.
    Comandante della portaerei Chiyoda
    Eiichiro Jo
    (luglio 1944)
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:34 pm

    Contrammiraglio Masabumi Arima
    Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un'animazione insolita regna all'aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai giapponesi.
    Gli animi sono eccitatissimi perché la ricognizione ha avvistato una squadra navale americana al largo dell'isola di Luzon, la maggiore dell'arcipelago.
    Senza nemmeno attendere gli ordini specifici, il personale di terra lavora senza sosta attorno agli apparecchi dispersi lungo le piste e nei capannoni per oliare e verificare i motori, per fare il pieno del carburante a tutti i velivoli disponibili, per caricare le bombe e i nastri delle mitragliatrici.
    Il contrammiraglio Masabumi Arima, comandante della 26a Flottiglia della Prima Flotta Aerea di Marina, riunisce in seduta straordinaria i suoi subalterni e chiede formalmente allo Esercito - è un fatto senza precedenti - di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere affinché, per la prima volta, le squadriglie delle due Armi possano operare insieme in un'unica missione.
    L'autorizzazione è senz'altro concessa e Arima decide che l'attacco alla squadra navale americana, il Task Group 38/4 del contrammiraglio Ralph E. Davison, si svolgerà in due ondate.
    La seconda ondata sarà costituita da 13 bombardieri in picchiata Suisei, da 16 caccia Zero e da 70 caccia di tipo eterogeneo dell'Esercito.

    Quando la prima ondata è già in volo, e mentre si allineano sulle piste di cemento gli apparecchi della seconda ondata, Arima in persona scende, sul terreno insieme agli aviatori.
    Indossa una tuta qualsiasi e non reca le insegne del suo grado.
    Una luce strana brilla nei suoi occhi.
    Dice pacatamente: «Comanderò io la seconda ondata ».
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:35 pm

    E' contrario alle regole che un contrammiraglio rischi la vita per guidare personalmente i suoi uomini in una battaglia.
    Inoltre Masabumi Arima è amato da tutti per la sua bontà, la sua modestia e il suo carattere paterno.
    Gli aviatori si ribellano, non vogliono che un uomo come lui partecipi a un combattimento nel quale, come avviene ormai da più di un anno, le forze giapponesi saranno decapitate.
    Ma Arima è inflessibile: «Non si discute. Vengo con voi ».

    Sebbene costernati, gli uomini non possono che inchinarsi alla volontà del comandante.
    Negli ultimi tempi lo si è visto pregare e meditare a lungo, in raccoglimento quasi estatico.
    Da settimane ha lasciato la sua lussuosa residenza per vivere come i soldati più umili, nutrirsi frugalmente e talvolta anche digiunare.
    Come se una fede al calor bianco, più che una febbre, lo divorasse.
    Ma nessuno sospetta - od osa sospettare - qual è il vero proposito di Arima.
    Si preferisce pensare che egli voglia partecipare di persona alla missione, in se stessa rischiosissima, solo per rendersi conto con i propri occhi dei dispositivi di difesa degli americani e delle possibilità offensive che ancora restano ai giapponesi in attacchi di quella specie.
    Arima sale a bordo di un bombardiere Suisei e ordina al suo compagno di volo, un sottufficiale, di scendere.
    L'uomo è allibito.
    Obbedisce. Certo è il primo a intuire che Arima sta per compiere un gesto disperato.
    La seconda ondata è in volo verso mezzogiorno.
    Tutte le pupille sono puntate sull'aereo di Arima, che dall'esterno non si distingue in nulla dagli altri dodici Suisei.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:36 pm

    Gli Zero proteggono i bombardieri in picchiata volando a una quota più alta di un migliaio di metri, i caccia dell'Esercito seguono a gruppi di cinquesette apparecchi.
    Nel primo pomeriggio il Task Group 38/4, con anticipo più che sufficiente per far decollare i caccia imbarcati, localizza gli incursori.
    Immediatamente alcune squadriglie di Hellcats sfrecciano dai ponti di volo delle portaerei a muso in su, per correre a intercettare i nemici.
    I cannoni e le mitragliere contraeree delle navi sono puntati.
    Tutto è pronto per accogliere i giapponesi come, del resto, i giapponesi s'aspettano: lo sbarramento sarà infernale.
    Cosi è, infatti.
    Presto il cielo si riempie di scoppi ed è rigato dalle rotaie luminose dei proiettili traccianti.
    Gli Hellcats sono implacabili.
    Sparano all'impazzata da lontano con le loro sei mitragliere Colt-Browning da mezzo pollice e subito diversi apparecchi giapponesi, che non hanno i serbatoi corazzati, esplodono letteralmente in volo, dissolvendosi.
    Gli Zero, più leggeri e manovrabili, si esibiscono come sempre nelle più ardite evoluzioni, ma sono braccati, azzannati, assaliti da tutte le parti. I Suisei, meno veloci, non riescono neppure a raggiungere le posizioni dalle quali tentare le picchiate sulle portaerei americane.
    Cadono come mosche. Tutti, tranne uno.
    Il contrammiraglio Arima non è fuggito, s'è semplicemente nascosto in una nuvola per cogliere di sorpresa la grande nave di Davison, la portaerei Franklin.
    Eccolo gettarsi dritto in quella direzione e scendere come una meteora.
    Ecco la Franklin ingigantire davanti agli occhi di Arima.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:36 pm

    E' un attimo.
    Un vivido bagliore color rosso-arancio, una nuvola di fumo denso e di fuoco.
    Il Suisei, con il suo carico di tre quintali di bombe, si è polverizzato sul ponte della Franklin.
    Esterrefatti, angosciati, ma anche entusiasti, gli aviatori giapponesi scampati alla furia degli Hellcats hanno assistito al sacrificio supremo del loro comandante.
    Intanto, sotto ai loro sguardi, una serie di deflagrazioni si succede sulla portaerei ferita.
    L'incendio seguito allo scoppio delle bombe e dei serbatoi del Suisei ha raggiunto un deposito di munizioni.
    Fortunatamente per gli americani, non il principale.
    Le squadre di soccorso lottano freneticamente per salvare la nave, e alla fine ci riescono.
    Ma la Franklin, malconcia, inclinata su un fianco, per il momento inservibile, dovrà raggiungere una base di riparazione e resterà lontana per qualche tempo dai teatri di guerra.

    Arima ha dimostrato che l'attacco suicida «paga > assai più di quello convenzionale, purché sia sferrato in modo astuto e al momento giusto.
    Rientrando all'aeroporto Clark, i testimoni del gesto del contrammiraglio - non molti, più della metà sono caduti - riferiscono ai compagni, emozionatissimi, tutti i dettagli dello stupefacente episodio.
    Esso vola di bocca in bocca per tutte le Filippine, e da lì rimbalza a Formosa.
    Prima di sera è già conosciuto a Tokyo, e avrà un peso determinante nelle risoluzioni che saranno prese nei giorni immediatamente successivi.

    I Kamikaze ,
    Mondatori 1973
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:38 pm

    Le origini
    Già nei primi mesi della guerra del pacifico numerosi aviatori giapponesi ricorrono al sacrificio estremo,per essere ben certi di colpire il nemico.
    In molte occasioni i marinai americani hanno visto abbattersi sulle loro navi, come bolidi, gli aeroplani con le insegne del Sol Levante.
    Ma sono state, improvvisazioni individuali, eroiche secondo alcuni e soltanto fanatiche secondo altri; non esclusive del resto, come metodo-limite di lotta, dei giapponesi.
    Alla fine del 1943 un pensiero insinuante ha cominciato a farsi strada nelle menti degli aviatori di Marina del Tenno, a serpeggiare lentamente fino a diventare una fissazione.
    Da diverso tempo essi hanno constatato di combattere contro gli americani in condizioni di avvilente inferiorità.
    Il famoso caccia Zero è stato surclassato dall'Hellcat, più veloce, più robusto, miglior incassatore e capace di un assai maggiore volume di fuoco.
    Gli aviatori americani non venivano inviati in missione senza prima aver completato tutti i turni di un severo addestramento, mentre per loro, i giapponesi, mancava quasi il tempo di andare a scuola, poiché non si poteva sciupare una goccia di carburante in più dello stretto necessario.
    Il nemico era dunque superiore in modo schiacciante, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo.
    Le sue risorse industriali sembravano senza fondo.
    La somma di queste avversità confluiva in un crudo schema statistico, nelle battaglie aeree andava perduto il 40, il 60, talora addirittura l'80 per cento degli apparecchi giapponesi impiegati, mentre nelle incursioni agli obiettivi navali, ferma restando una così insostenibile percentuale di abbattimenti, non si riusciva quasi più a centrare un bersaglio, tanto fitto, preciso e concentrato era lo sbarramento difensivo delle unità della U. S. Navy.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:38 pm

    Ed ecco nascere il pensiero insinuante, la fissazione.
    Se la morte in combattimento era ormai diventata un'eventualità fatale senza che neppure servisse a rallentare l'avanzata del nemico di isola in isola , quasi nessuno sopravviveva a più di due o tre missioni a fuoco , perché non estendere deliberatamente a tutti il principio, fino ad allora casuale e improvvisato, del suicidio volontario per la Patria? Non avevano forse lo spirito e il cuore degli antichi Samurai, gli aviatori del Giappone moderno?
    E allora, se gli attacchi aerei convenzionali alle navi alleate non offrivano alcun risultato positivo, e per di più si moriva ugualmente, cosa aspettava l'Alto Comando Imperiale a chiedere ai nuovi Samurai, se non ad imporre, di spingere fino alle estreme conseguenze il Jibaku, il tuffo in picchiata sulle navi del nemico?
    Non c'era che un modo per fermare quei mostri d'acciaio: speronarli dal cielo, con una bomba innesenta sotto il ventre degli aerei.
    Le bombe che piovevano senza guida dall'alto finivano tutte in mare.

    Già una volta nella storia del Giappone un evento straordinario aveva capovolto all'ultimo minuto una situazione che appariva disperata. Nell'anno 1281 , verso la metà di agosto, un uragano di eccezionale violenza aveva disperso la flotta cino-mongola di Kublai Khan, forte di 3.500 giunche e di centomila guerrieri, che si apprestava a invadere il Giappone.
    I giapponesi, grati al Dio del Vento, Ise, per il suo, provvidenziale aiuto, chiamarono Vento Divino (Kamikaze) quella tempesta, e da allora il culto di Ise assunse un significato particolare nel cosmo della mitologia shintoista.
    Quasi sette secoli più tardi, nel 1944, non c'è giapponese che non invochi da Ise un nuovo Vento Divino.
    L'Impero è in gravissimo pericolo, e stavolta a minacciarlo non sono delle fragili giunche, ma immense navi d'acciaio che nessuna bufera può affondare.
    Se ci sarà salvezza, sarà dovuta alla superiorità spirituale dei giapponesi, che credono con fervore mistico nei valori e nelle virtù della loro tradizione millenaria.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:39 pm

    Per mesi e mesi, nel 1944, i piloti della Marina confabulano e perfezionano il loro disegno.
    Essi sognano ormai di raggiungere gli antenati gloriosi nel tempio venerato di Yasukuni e di cantare con loro l'inno eroico Umi Yakaba. Ma l'Alto Comando fa orecchie da mercante.
    Per quanto disperatamente compromessa sia la situazione strategica del Giappone, nemmeno gli ufficiali più fanatici, fra coloro che occupano i posti di più alta responsabilità, si sentono ancora di avallare una concezione bellica fondata all' origine sulla morte necessaria dei combattenti: sarebbe un fatto senza precedenti, e di portata incalcolabile, anche per un Paese tradizionalmente guerriero e dalla cultura originalissima com'è il Giappone.
    Ma, fra il 18 e il 20 giugno, la Marina Imperiale subisce una catastrofica disfatta nella battaglia aeronavale delle Marianne.
    Il capitano di vascello Eiichiro Jo, comandante della portaerei Chiyoda, si fa portavoce dei sentimenti dei suoi aviatori e, ai primi di luglio, indirizza all' Alto Comando un drammatico messaggio:
    «Non c'è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori.
    Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere io il comando ».
    L'appello di Eiichiro Jo, uomo che gode di un prestigio senza macchia, ha un'eco impressionante a Tokyo.
    Egli non sarà nominato comandante dei primissimi kamikaze della storia - gli uomini del nuovo Vento Divino - solo perché la burocrazia non gliene darà il tempo.
    Ma, sulla Chiyoda colpita a morte dai suoi implacabili nemici, colerà a picco proprio il giorno in cui si immoleranno i kamikaze dei primi Corpi Speciali: il 25 ottobre 1944, nella. tragedia di Leyte.
    Prima che venga quel giorno, il Giappone continua a collezionare sconfitte negli stessi luoghi dove due anni prima aveva trionfato.
    Le squadriglie di apparecchi, sia della Marina che dell'Esercito, sono puntualmente decimate al suolo, negli aeroporti delle Filippine, da massicce formazioni di bombardieri in picchiata, decollati dalle portaerei americane che infestano il Pacifico.
    Il 9 e il 10 settembre la grande base di Davao è sconvolta.
    Il 12, il 13 e il 14 sono devastate le basi di Cebu, Legaspi e Tacloban.
    Attorno a Manila le attrezzature aeroportuali sono addirittura annientate nel corso di due terribili incursioni, il 21 e il 22.
    Nella seconda, centinaia di velivoli giapponesi vengono distrutti in meno di un' ora.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:41 pm

    Bisogna difendere le filippine a tutti i costi
    Questo accanimento contro le Filippine fa supporre all' Alto Comando Imperiale che proprio quel vasto arcipelago sarà il prossimo obiettivo del generale MacArthur e dell'ammiraglio Nimitz.
    Ma la conservazione delle Filippine è assolutamente vitale per l'Impero.
    Le Filippine non costituiscono soltanto, per la loro collocazione geografica, uno scacchiere strategico di straordinaria importanza.
    Esse sono il polmone stesso del Giappone, la fonte delle materie prime indispensabili alle industrie e dei rifornimenti essenziali all'economia del Paese.
    Le Filippine vanno dunque salvate a qualunque costo, e i comandanti militari ammoniscono soldati, marinai e aviatori senza un'ombra di retorica: per le Filippine si deve morire fino all'ultimo uomo, prima che gli americani vi mettano piede.
    Negli animi dei combattenti si accende la scintilla di un'esaltazione delirante, ai limiti del fanatismo, del tutto inconsueta perfino per gli spiriti giapponesi.
    Ma essa non si dimostra sufficiente ad arginare la montante marea alleata.
    Il 15 settembre 1944 i marines sbarcano a Peleliu, nelle Palau, a metà strada fra le Marianne e le Filippine.
    Il 6 ottobre Vyacheslav Mikhailovic Molotov, ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, confida sibillinamente all'ambasciatore giapponese a Mosca che l'inizio dell'invasione delle Filippine è previsto per il 20 dello stesso mese.
    (E' un perfido tiro di Stalin ai suoi alleati occidentali. La volpe del Cremlino intende, sì, attaccare a sua volta il Giappone, ma da sciacallo, quando del Giappone non resterà che il cadavere.
    E che gli americani si dissanguino il più possibile!).
    L'Alto Comando Imperiale, a questo punto, decide di intraprendere uno sforzo gigantesco per difendere le Filippine.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:42 pm

    In fretta e furia - anzi, forse con troppa fretta e con poco cervello: ma il tempo stringe, non c'é scelta - viene varato lo Sho-go (Piano della Vittoria), che consiste nel lanciare nella mischia, coordinatamente, l'intera flotta giapponese, con l'appoggio di tutti gli aeroplani imbarcati e di quelli che ancora si trovano negli aeroporti delle Filippine, di Formosa e delle isole oceaniche non ancora riconquistate dagli Alleati.
    Praticamente tutto il potenziale giapponese disponibile per la metà di ottobre sarà scagliato contro le forze degli invasori.
    l combattenti sentono profondamente che il Piano Sho non fallirà lo scopo: fanatismo, disperione e illusione sono sempre stati compagni. Tutti si arrovellano per cercare, studiare, proporre nuovi metodi di lotta, i più bizzarri, che facciano da panacea contro la strapotenza convenzionale del nemico.
    Per gli aviatori il metodo non può essere che uno, gettarsi a capofitto sulle navi americane.
    Non c'è altra possibilità per arrestare le flotte d'invasione.
    Gli aviatori sono ossessionati soprattutto dalla necessità di distruggere le portaerei, perché è da questi giganti del mare che viene ogni giorno la morte.
    Le più grandi portaerei americane portano quasi cento aerei ciascuna. Se sono caccia, le forze di una portaerei sola bastano a liberare il cielo da almeno trecento Zero, poiché è ormai assodato che un Hellcat vale per tre Zero.
    Se sono bombardieri, in una missione possono cancellare dalla faccia della Terra tutto quanto esiste in un grandissimo aeroporto.
    Obiettivo primario, dunque, le portaerei.
    Ma gli ufficiali dei gradi più alti ordinano di impegnarsi a fondo anche contro le navi da trasporto e le petroliere, altrettanto necessarie agli invasori.
    Essi non suggeriscono però come impegnarsi a fondo: la strategia suicida, auspicata con triste ma ferma consapevolezza da Eiichiro Jo, non è stata ancora ufficialmente approvata dall' Alto Comando.
    Perciò, le direttive del Piano Sho sottintendono che le forze aeree continuino a essere impiegate in modo tradizionale.
    E' a questo punto che il contrammiraglio Arima rompe ogni indugio e offre il sacrificio della propria vita per convincere con l'esempio l'Alto Comando Imperiale a costituire i Corpi Speciali suicidi.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:42 pm

    Forze anfibie americane si attestano nelle piccole isole Suluan, presso il Golfo di Leyte, il 17 ottobre 1944.
    Contemporaneamente, da direzioni diverse, le squadre navali giapponesi convergono sull'arcipelago delle Filippine per dare vita al Piano Sho.
    Lo stesso giorno giunge a Manila il vice-ammiraglio Takijiro Onishi, nominato da poco comandante della Prima Flotta Aerea di Marina.
    E' uno dei più valorosi e capaci ufficiali del Tenno.
    In gioventù è stato il primo militare giapponese a praticare il paracadutismo, nel 1941 ha dato più di un consiglio allo scomparso Isoroku Yamamoto nell' elaborazione dell' attacco-sorpresa a Pearl Harbor.
    Ora i tempi sono cambiati in peggio.
    Il 18 ottobre l'ex-comandante della Prima Flotta, l'ammiraglio Kimpei Teraoka, gli passa le consegne.
    Onishi non perde tempo.
    Nel tardo pomeriggio del 19 si fa condurre in auto sul campo d’aviazione di Mabalacat, centodieci chilometri a nord di Manila, e chiede di recarsi dal comandante della 201a Squadra.
    La flotta d'invasione alleata è alle porte.
    Nella palazzina del comando di base, convocati all'improvviso da Onishi, sono presenti, oltre a lui, il suo ufficiale d'ordinanza Chikanori Moji, il capitano di fregata Asaichi Tamai - comandante in seconda della 201a - il sottocapo di Stato Maggiore della Prima Flotta Aerea
    Rikihei Inoguchi, l'ufficiale di Stato Maggiore della 26a Flottiglia Yoshioka e due comandanti di squadriglia, Yokoyama e Ibusuki. L'atmosfera è tesa, nervosa.
    Nessuno si spiega il perché della visita del vice-ammiraglio a quell'ora insolita.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:43 pm

    Gira fra gli ufficiali una bottiglia di saké, ma nessuno beve.
    Onishi passeggia su e giù per la stanza, in silenzio, per qualche minuto, poi si passa stancamente una mano sulla fronte, sembra raccogliersi un'ultima volta e comincia:
    «Signori, non c'è bisogno che io vi dica che, se il Piano Sho dovesse sventuratamente fallire, la nostra situazione militare precipiterebbe di colpo.
    E' indispensabile che tutte le forze della Prima Flotta Aerea assicurino il successo alla missione dell'ammiraglio Kurita, sul quale grava il peso principale del Piano Sho.
    La Prima Flotta Aerea farà da copertura, dunque, alle navi di Kurita in avvicinamento ».
    Un istante di sospensione. Onishi è affranto.
    Ma presto si riprende:
    «Purtroppo noi non siamo più abbastanza forti per poterci misurare con il nemico nei combattimenti aerei.
    Ci resta tuttavia una grossa carta da giocare.
    Dovremmo impedire agli apparecchi americani di decollare dalle loro portaerei almeno per la prossima settimana ».
    Gli astanti hanno i nervi a fior di pelle. Onishi conclude:
    « Sono persuaso che il solo mezzo attuabile per conseguire questo scopo consista nel caricare delle bombe da 250 chilogrammi sotto ai nostri aerei da caccia, e di mandarli a fracassarsi direttamente sugli obiettivi.
    Cosa ne pensate, signori? »
    Tutti sono paralizzati dallo stupore.
    Un comandante non ha mai chiesto il suicidio certo ai suoi uomini; se mai sono stati gli aviatori a spargere la voce che sono pronti a sacrificarsi spontaneamente per il bene della Patria.
    Lo stesso contrammiraglio Arima ha scelto di morire, ma non ha indotto nessuno, a parole,a comportarsi come lui.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:43 pm

    E' Asaichi Tamai a rompere il silenzio di ghiaccio che è calato sulla riunione.
    Rivolto a Yoshioka, gli domanda: « Quali effetti pratici possono avere su una portaerei di 20 o 30.000 tonnellate l'impatto di un piccolo caccia e l'esplosione di una bomba da 250 chilogrammi? »
    La risposta di Yoshioka è pronta: «La portaerei non affonderà, questo è quasi certo. Ma la si può mettere fuori combattimento per più giorni, forse per più settimane.
    E comunque, se la si colpisce prima che i suoi apparecchi siano riusciti a decollare, essi non decolleranno più.
    Se la si colpisce dopo, decolleranno solo una volta, poiché al ritorno non troveranno un ponte di volo intatto sul quale posarsi, cioè finiranno in mare ».
    Tamai chiede rispettosamente a Onishi di consultarsi in privato con Ibusuki.
    Poco più tardi, con voce alterata dall'emozione, riferisce:
    «lo sono soltanto il comandante in seconda della 201a Squadra, ma credo di poter parlare a nome del capitano di vascello Sakae Yamamoto, assente questa sera.
    Assumo interamente la responsabilità dei miei atti.
    lo e Ibusuki siamo dell'avviso che il viceammiraglio Onishi sia nel giusto, e lo preghiamo di attribuire alla 201 a Squadra l'onore di organizzare la prima unità destinata agli attacchi speciali ».
    Onishi è commosso fino alle lacrime.
    Tutti sono profondamente scossi.
    In verità, è accaduto un fatto di eccezionale gravità durante quella riunione.
    Fino a oggi i suicidi hanno avuto una motivazione individuale, un carattere individuale.
    D'ora in poi saranno pianificati nell'ambito di una esatta strategia d'offesa.
    Gli uomini che si sacrificheranno, lo sapranno con giorni e settimane di anticipo.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:44 pm

    Saranno dei volontari, è vero, ma quale soldato giapponese rifiuterebbe di offrirsi, in un mometo storico di suprema emergenza come questo?
    Onishi ha detto: «Abbiamo bisogno che gli apparecchi delle portaerei nemiche non decollino per una settimana»
    In altri termini, le unità speciali suicide dovrebbero operare solo quella volta, a titolo straordinario e provvisorio, in connessione con il Piano Sho.
    Vero anche questo.
    Ma, una volta instaurato il principio, come si può ragionevolmente pensare che esso non sarà generalizzato?
    Sia come sia, la decisione è stata presa.
    Una decisione tutta giapponese, inconcepibile per qualsiasi occidentale.
    Domani sarà un giorno nuovo della storia.
    Prima che scenda la notte, ventitré giovani piloti della 201 a Squadra sono convocati da Tamai.
    Nessuno di loro sa cosa abbia da dire il vicecomandante, ma forse qualcuno ne ha il presentimento.
    Tamai parla a lungo, illustrando la disastrosa situazione strategica e non nascondendo che il Piano Sho, quand'anche riuscisse, non risolverebbe una volta per tutte gli angosciosi problemi del Giappone. Ma il Piano Sho deve riuscire a qualunque prezzo.
    Dopo, se ogni giapponese saprà continuare a lottare fino allo stremo delle forze, l'Impero potrà forse essere salvato.
    I ragazzi, il capo chino come innanzi a una predicazione religiosa, ascoltano muti e assorti.

    E qui accade una cosa straordinaria, più che mai al di fuori della portata mentale di ogni uomo dell'Occidente.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:45 pm

    Tamai non riesce neppure a finire il discorso perché, tutti e ventitré, i ragazzi della 201 esplodono in un formidabile Tenno Banzai
    Isteria collettiva? No.
    E' il frutto di duemila anni di shintoismo, di dedizione totale e assoluta alla tradizione gloriosa degli antenati, della convinzione radicata di essere i depositari della più alta - anzi, dell'unica vera - civiltà mondiale, e della certezza che morire per il Giappone significa rivivere in un mondo epico popolato di Eroi, venerati e osannati dai mortali che resteranno.
    Sono uomini in carne e ossa. Anch'essi hanno dei sensi, sanno cos'è la felicità e l'infelicità terrena. Non sono indifferenti alla vita corporea. Hanno tutti, più o meno, dei problemi quotidiani che non riguardano lo shintoismo né l'Imperatore né gli antenati né il Giappone.
    Però, da sempre, posseggono una carica emotiva e passionale che supera e cancella i valori dell'esistenza comune e lo stesso spirito di conservazione.
    Un europeo di oggi e di ieri non può capire, o almeno non può accettare l’ entusiasmo.
    Nemmeno un filosofo storico dell'antichità classica, ignaro del cristianesimo, pagano e scettico fino all'osso, potrebbe capire.
    Anzi, non capirebbe proprio perché pagano e scettico.
    Tamai stringe la mano a tutti e ventitré, uno per uno.
    Piange e li ringrazia.
    Poi li prega di mantenere il segreto più assoluto su quanto è stato detto.

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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:46 pm

    25 Ottobre 1944
    Gli Zero Affrontano la Flotta Americana

    Fin dalle prime battute della battaglia i giapponesi si rendono conto, con disperazione, che il Piano Sho non funziona.
    I bombardieri in picchiata, gli aerosiluranti e i caccia della Prima Flotta Aerea sono immediatamente sopraffatti dagli Hellcats e dalla cortina di fuoco delle navi nemiche, mentre gli apparecchi americani compiono autentiche stragi sulle unità giapponesi.
    Per il Sol Levante la battaglia di Leyte non è una semplice sconfitta: è un disastro di proporzioni inaudite, nel quale la Flotta Oceanica Imperiale cessa quasi di esistere.
    La prima azione dei kamikaze, prevista per il 23 ottobre, è rinviata al 25 poiché i piloti, decollati dopo essersi cinti il capo con
    l' hacimaki (la fascia di panno bianco, simbolo dello spirito di sacrificio per la Patria), sono rientrati alla base di Cebu, avvilitissimi per non essere riusciti a trovare il nemico.
    Si può morire una volta - e la certezza della morte imminente è più terribile, forse, della morte stessa, - ma non la seconda!
    Questo dovrebbe oltrepassare i limiti della più fanatica (o mistica) spiritualità giapponese.
    Non è così, invece.
    I medesimi uomini, all'alba del 25 ottobre, bevono saké nell'assistere al rito simbolico del loro funerale, cantano inni guerreschi, si riannodano l’ hacimaki e ripartono.
    Alle 7,30 del mattino, in un punto dell'Oceano situato allargo della costa settentrionale di Mindanao, a una quarantina di miglia dall'isola Siargao, i 6 Zero della Sezione Yamato scoprono il Taffy Group 1 del contrammiraglio Thomas L. Sprague, forte di quattro portaerei di scorta e di sette cacciatorpediniere.
    Il primo Zero si tuffa alle 7,40 sulla portaerei Santee.
    La sua traiettoria è tesa.
    Quand'è a cinquecento metri dalla nave lo Zero spazza il ponte con una breve, secca raffica di mitragliatrice.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:46 pm

    Questione di tre, quattro secondi.
    L'esplosione sulla parte anteriore del ponte di volo apre un cratere di 9 metri per 5.
    L'aereo si è completamente disintegrato, del pilota non è rimasto nulla. Sulla Santee divampa un violento incendio.
    La nave si salverà, ma dovrà abbandonare la zona delle operazioni.
    Un altro Zero, il secondo, spunta da una nuvola come un'apparizione diabolica.
    Il suo pilota ha scelto per bersaglio la Sangamon, ma un proiettile sparato dalla Suwannee lo centra a mille metri di quota e l'apparecchio precipita in vite.
    Il kamikaze fa appello a tutte le sue forze per raddrizzarlo e non cadere in mare inutilmente, ma è colpito di nuovo da una granata da 127 millimetri.
    I brandelli dello Zero cadono fiammeggiando a 150 metri dalla Suwannee.

    Il terzo Zero picchia deciso sulla Petrof Bay, accolto da una fittissima ragnatela di proiettili traccianti.
    Si dissolve in una rosa di lapilli incandescenti.
    Il quarto Zero è abbattuto dal tiro della Suwannee.
    La stessa unità è presa di mira dal quinto Zero, e anche questo viene colpito.
    Ma il kamikaze riesce a controllarlo fino all'ultimo.
    Un boato: la Suwannee è centrata e le sovrastrutture cominciano a bruciare. Si ritirerà dalla scena, come la Santee.
    Del sesto Zero della Sezione Yamato non si sa nulla.
    Scomparso, certamente abbattuto.
    Yukiho Seki guida personalmente la Sezione Shikishima e localizza il Taffy Group 3 del contrammiraglio Clifton A.F. Sprague a circa 170 chilometri da Leyte.
    Questo Gruppo ha subito qualche perdita nel corso della recentissima battaglia di Samar, ma consta ancora di quattro portaerei di scorta e di sei cacciatorpediniere.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:47 pm

    I suoi radar segnalano la squadriglia di Seki, e il giovane capitano di vascello è costretto a una fuga momentanea per evitare la sicura distruzione dei suoi aerei da parte di una quarantina di Hellcats, prontamente levatisi in volo.
    Ma alle 10,40 le navi americane sono nuovamente individuate e Seki comunica ai ragazzi nell'interfono:
    «Portaerei a 90 miglia est di Samar. Si va all'attacco. Banzai! ».
    Trascorrono dieci minuti.
    Gli Zero, per celarsi ai radar del nemico, volano a pelo d'acqua.
    Quando le portaerei sono in vista, cabrano simultaneamente fino a 1.600 metri, da dove cominciano la picchiata mortale, il Jibaku.
    Il primo Zero fila sulla Kitkun Bay, mitraglia perdutamente e sembra vicino al successo, quando una granata gli esplode sotto il ventre a un centinaio di metri dall'obiettivo.
    La bomba si stacca e scoppia vicinissima alla nave, recando qualche danno.
    L'aereo, sfasciato, finisce tra i flutti.
    Contemporaneamente due Zero sono distrutti dal fuoco rabbioso della Fanshaw Bay.
    Uno di essi, probabilmente, è quello di Yukiho Seki.
    Si lanciano altri due Zero, entrambi contro la White Plains.
    Uno, benché ridotto al puro scheletro dai proiettili incendiari delle batterie nemiche, si porta così vicino alla nave che, nel momento in cui esplode in volo, la ferisce malamente in più punti.
    L'altro, scoraggiato dal troppo denso sbarramento della White Plains, compie una deviazione in piena picchiata e va a schiantarsi sulla St. Lo.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:48 pm

    Lo scoppio è terrificante.
    Le squadre di soccorso non riescono a circoscrivere le fiamme ed esse raggiungono un deposito di sette siluri, che esplodono a loro volta.
    E' un inferno.
    Frammenti d'acciaio e pezzi di carne umana volano per ogni dove, assieme a carcasse di aeroplani. La St. Lo è condannata senza scampo.
    Il suo comandante, capitano di vascello MacKenna, ordina all'equipaggio di abbandonare l'unità, che s'inabissa alle 11,25.
    Le Sezioni Asahi e Yamazakura cercano e inseguono le navi statunitensi in quella e in altre zone di mare.
    Alcuni Zero attaccano di fronte la Kitkun Bay, già leggermente danneggiata, ma sono dispersi dal concentratissimo tiro antiaereo.
    Uno di essi, colpito, manca lo scafo per un soffio.
    Altri quattro Zero picchiano insieme sulla Kalinin Bay.
    Tre cadono, sbranati dalle schegge delle granate.
    Il quarto coglie nel segno, giusto a metà del ponte di volo.
    I danni sono gravi.
    Alle 11,30 il cielo è sgombro di kamikaze.
    Anche molti Zero di scorta, privi perciò di bombe, hanno compiuto il Jibaku per accompagnare gli amici destinati al sacrificio.
    Pochi si sono salvati.
    Tre Zero di scorta rientrano a Cebu alle 12,20 e i tre piloti, esaltati da quello che hanno visto, si precipitano a rapporto.
    Non solo i comandanti, ma tutti i piloti, tutti gli uomini del personale di terra vogliono conoscere in ogni particolare l'andamento della prima missione kamikaze della storia.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:48 pm

    I piloti, in gran parte volontari suicidi, fanno ovviamente centinaia di domande.
    Ma sono domande tecniche.
    Non si preoccupano della vita - in pratica, l'hanno già immolata -, vogliono invece sapere tutto sul Jibaku per poterlo compiere efficacente quando verrà il loro turno.
    A sera Radio Tokyo nasconde al popolo giapponese la funesta verità sulla battaglia di Leyte, nella quale la Flotta Imperiale (un tempo la terza del mondo) ha perso 26 navi tra cui la corazzata gigante Musashi, le corazzate Yamashiro e Fuso, la portaerei pesante Zuikaku, le portnerei leggere Chiyoda, Zuiho e Chitose, 6 incrociatori pesanti, 4 incrociatori leggeri e 9 cacciatorpediniere, oltre a 391 aeroplani, senza contare le unità danneggiate più o meno gravemente.
    Radio Tokyo diffonde poi un comunicato del Gran Quartiere Generale Imperiale in cui si fa cenno alla « grande vendetta» compiuta dal Corpo Speciale dei kamikaze e si esaltano le gesta dei piloti suicidi.
    L'entusiasmo si propaga in tutto il Giappone, ignaro del fallimento integrale del Piano Sho.
    Il numero già elevato dei volontari della morte si decuplica, e il vice-ammiraglio Onishi si convince a costituire altri Corpi Speciali e a prolungame l'attività operativa ,originariamente prevista solo in appoggio al Piano Sho.

    D'altra parte la strategia kamikaze sembra davvero l'unica, per il momento, che possa fruttare qualche vantaggio al Giappone.
    Nella battaglia di Leyte le navi di Kurita, e gli apparecchi impiegati negli attacchi convenzionali, sono stati in grado di affondare solo 5 unità americane: la portaerei leggera Princeton, la portaerei di scorta Gambier Bay, i cacciatorpediniere Johnston, Heel e Samuel B. Roberts. Mentre i pochi Zero della prima missione kamikaze hanno affondato la portaerei di scorta St. Lo e ne hanno danneggiate diverse altre.
    In proporzione, i kamikaze hanno fatto assai più degli altri.
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:49 pm

    Il 26 ottobre l'ammiraglio Fukudome, comandante della Seconda Flotta Aerea, avvilito per gli insuccessi dei suoi bombardieri e dei suoi caccia, segue l'esempio di Onishi e decide di formare a sua volta dei Corpi Speciali suicidi.
    Per unificare i Comandi, gli Stati Maggiori della Prima e della Seconda Flotta si fondono in un solo organismo chiamato «Flotta Combinata del Teatro Sud-Ovest ». Fukudome, più anziano di Onishi, è nominato comandante in capo, mentre Onishi stesso diventa Capo di Stato Maggiore.
    Il giorno successivo. vengono battezzate quattro nuove squadriglie di kamikaze, costituite da effettivi della 701a Squadra.
    Le comanda Tatsuhiko Kida.
    Si chiamano Chuyu, Seichu, Junchu, Giretsu.
    E' l'inizio del principio kamikaze generalizzato, appena otto giorni dopo la fulminea improvvisazione di Onishi.
    Sarà impossibile, da questo momento in avanti, seguire passo passo tutte le vicende dell'epopea kamikaze.
    All'indomani della prima missione, passata l'eccitazione frenetica delle ore immediatamente successive alla battaglia, i commenti restano favorevoli.
    A mente serena si giudica infatti che i risultati ottenuti dai piloti suicidi della 201a Squadra sono stati, più che buoni, eccellenti.
    Ma il 27 ottobre Onishi - non soltanto perché stravolto a causa del rovescio di Leyte - ha una grave crisi di coscienza, che manifesta a Inoguchi nel momento in cui altri kamikaze decollano per andare ad attaccare le navi da trasporto dirette a rifornire di armi e materiali i marines già sbarcati.
    « Il fatto stesso che noi siamo stati costretti a usare questo nuovo metodo di guerra » dice Onishi « dimostra la nostra impotenza e mette a nudo tutti gli errori strategici che abbiamo commesso dopo Pearl Harbor.
    Gli attacchi suicidi sono mostruosi! »
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    Messaggio  Red_Group Sab Nov 15, 2008 7:50 pm

    Lo stesso giorno operano per la prima volta le squadriglie della 701a Squadra di Fukudome, ma l'unica unità danneggiata è l'incrociatore leggero Denver.
    In serata c'è una riunione tecnica fra i principali responsabili dell'iniziativa kamikaze, con la consulenza dei piloti dei caccia di scorta che sono tornati vivi dalle missioni fin qui effettuate.
    Le esperienze del primo giorno hanno dimostrato che, a parte il colpo fortunato della St. Lo, sono necessari almeno due o tre impatti kamikaze ben centrati per danneggiare seriamente una portaerei di medio tonnellaggio, salvo usare apparecchi più grandi degli Zero e bombe più pesanti di quelle da 250 chilogrammi.
    Si è anche stimato che il gruppo ideale d'attacco dev'essere piccolo; tre aerei d'assalto e due di scorta.
    Quanto al modo migliore di attaccare, due tesi prevalgono.
    Secondo alcuni bisogna avvicinare le navi nemiche a bassissima quota per non essere localizzati dai radar ,come hanno fatto i kamikaze di Seki al largo di Samar -, poi impennarsi fino a 600-800 metri per iniziare una picchiata improvvisa.
    Questa tecnica offre il vantaggio di sorprendere l'avversario, sia pure non del tutto, e di ridurre al minimo gli interventi degli Hellcats eventualmente in volo, impossibilitati a manovrare a pelo d'acqua. Secondo altri è preferibile volare ad alta quota, sui 6.000-7.000 metri, dove il tiro contraereo è assai meno pericoloso, anche perché da lassù si può scegliere meglio il bersaglio.
    Anche questo sarebbe un sistema valido, ma ha il grave inconveniente di esigere che i kamikaze siano piloti esperti.
    E invece è già chiaro per tutti che bisogna economizzare al massimo i piloti esperti, e accettare come kamikaze solo i novellini.
    In pratica entrambe le tecniche saranno adottate nelle missioni successive, spesso congiuntamente, e così si otterrà , qualche volta , di disorientare le difese del nemico e di realizzare una più efficace penetrazione nello sbarramento.

    A tutti i livelli della gerarchia militare giapponese, prescindendo dal momentaneo sconforto di Onishi, si ripongono grandi speranze nei kamikaze.
    Alcuni ufficiali vagheggiano già in creazione di apparecchi e di altri mezzi appositamente studiati in funzione delle missioni suicide, più adatti degli aerei di tipo classico.
    Verranno, ma troppo tardi, e si dimostreranno perfettamente inutili.

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    Messaggio  Red_Group Dom Nov 16, 2008 12:03 am

    ECCO IL BERSAGLIO:
    MA I BOMBARDIERI "GINGA" NON HANNO PIU' BENZINA


    Con effettivi della Quinta Flotta Aerea si forma il Gruppo Speciale Azusa, comprendente 9 ricognitori e 24 kamikaze, al quale è affidata una missione particolarissima che prende il nome di Piano Tan: colpire la lontanissima base di Ulithi, dove sono in riparazione alcune delle più grandi portaerei americane.
    Il progetto è allettante, ma, data la distanza da percorrere - oltre 3.000 chilometri da Kyushu -, non si possono certo utilizzare gli Zero. Il generale Teraoka mette perciò a disposizione del Gruppo Azusa i modernissimi e veloci bimotori Ginga, armati finalmente con le bombe da 800 chilogrammi.
    Se parecchi di essi andranno a bersaglio, il colpo per la Marina americana sarà veramente duro, stavolta.
    Il Gruppo Azusa decolla da Kanoya l'11 marzo, di buon mattino, e subito punta a sud.
    Il cielo è limpido, l'oceano è increspato solo da una leggera brezza.
    Ma presto si verificano i primi contrattempi.
    I piloti di alcuni apparecchi segnalano agli altri equipaggi che il funzionamento dei loro motori è imperfetto.
    Maledicendo la sorte che, almeno per il momento, toglie loro la possibilità di immolarsi, diversi kamikaze devono interrompere la missione.
    Atterrano a Okinawa e a Miyakojima.
    Intanto le condizioni atmosferiche subiscono un brusco mutamento. Sulla verticale della piccola isola di Okinotori Shima i Ginga sono investiti da rabbiose raffiche di vento, mentre all'orizzonte si formano banchi di nuvole dense, gravide di pioggia.
    I piloti si consultano l'un l'altro via radio.
    Affrontare la depressione ciclonica o aggirarla con il rischio di spendere anzitempo il carburante necessario per arrivare a Ulithi?
    Si decide di allungare il percorso, ma serve a poco.
    Il maltempo sembra estendersi a tutto il Pacifico occidentale.
    I Ginga finiscono nel bel mezzo del fortunale e, per ore, sono in balia degli elementi.
    Si disperdono, si disuniscono, ognuno è costretto a pensare a se stesso.
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    Messaggio  Red_Group Dom Nov 16, 2008 12:04 am

    Alle 14,30 i ricognitori gettano la spugna e prendono la via del ritorno
    Completamente smarriti, prigionieri dell'impenetrabile massa di nuvole, i Ginga errano alla cieca nel ciclo di pece mentre il tempo scorre e il livello del carburante diminuisce.
    Qualche pilota, ritenendo ormai impossibile raggiungere Ulithi, chiede al navigatore se c'è ancora un fazzoletto di terra, nell'Oceano, dove scendere prima che sia troppo tardi.
    Così gli altri Ginga atterrano a Minami Daitojima e a Yap, ma due si inabissano.
    Restano in lizza 11 Ginga che, ostinati, continuano il loro viaggio a regime ridotto, per risparmiare carburante.
    Sono in volo ormai da dodici ore, i serbatoi sono quasi vuoti.
    Ed ecco, improvviso, uno squarcio di sereno davanti alle loro prue.
    Si intravedono delle luci che brillano nella notte.
    E' Ulithi.
    Gli americani, matematicamente certi di essere al riparo dal pericolo di qualsiasi incursione nemica, hanno rinunciato ad ogni cautela, cominciando con l'ignorare le norme dell'oscuramento.
    Gli equipaggi giapponesi, ora che la meta è vicina, sono più che mai angosciati.
    Il carburante è agli sgoccioli, i motori cominciano a tossire, qualche apparecchio ha esaurito le ultime riserve e procede veleggiando, mantenuto in aria dal pilota a prezzo di uno sforzo tremendo.
    Ulithi è là, dritta a prua, a pochissime miglia.
    E i Ginga, dopo un volo che i numerosi dirottamenti hanno allungato a più di 4.000 km, precipitano uno ad uno nella laguna!
    Un solo apparecchio regge all’ultimo strappo.
    Come un aliante, con le eliche presumibilmente ferme, scivola silenzioso sulle navi americane all'ancora nella baia.
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    Messaggio  Red_Group Dom Nov 16, 2008 12:05 am

    L'equipaggio della portaerei Randolph ha già cenato ed è ora riunito nell' hangar principale, dove si proietta un film poliziesco.
    Improvvisamente la nave è scossa da una violentissima deflagrazione.
    Tutti balzano in piedi, esterrefatti, si urtano , si calpestano nell'oscurità, gridando.
    Nessuno immagina cos'è accaduto.
    Le squadre di soccorso impiegano almeno dieci minuti per organizzarsi: quando intervengono, sul ponte della Randolph divampa già un incendio di prima grandezza.

    Solo all'alba del giorno dopo, fra i rottami, si trova qualche minutissimo resto del Ginga.
    La rivelazione che un kamikaze - ma non è stato solo uno! - è arrivato fin lì, paralizza gli americani.
    Ma Ulithi non ha più nulla da temere.
    L'esito disastroso e beffardo del Piano Tan induce Teraoka a non ritentare l'impresa.
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