Staff Sab Ago 30, 2008 11:25 pm
Possiamo ricordarne qualcuno.
Nel 1940 il capitano Giorgio Graffer, di Trento, magnifico pilota da caccia addetto alla difesa di Torino, durante una incursione notturna da parte di un velivolo inglese, avendo le armi inceppate, si lanciò col proprio velivolo contro il nemico abbattendolo con l'urto e lanciandosi quindi col paracadute.
Il 19 luglio 1943 il tenente Bruno Serotini, di Roma, addetto alla difesa della capitale, dopo aver a lungo attaccato una formazione di bombardieri nemici non vedendo alcun risultato del proprio fuoco ed avendo esaurito le munizioni, si lanciò col velivolo contro uno degli avversari, abbattendolo con l'urto e precipitando anch'esso, ferito a morte e col paracadute stracciato dai colpi nemici, ripetendo così il gesto che Arturo Dall'Oro aveva compiuto nella prima guerra mondiale.
'Sono soltanto due episodi, e ne esistono altri dei quali non ho così precisa conoscenza, che rappresentano la decisa volontà dei piloti di raggiungere a qualunque costo lo scopo per il quale erano in volo: la distruzione del nemico.
Diversi però appaiono i ragionamenti che hanno guidato i piloti nell'azione disperata.
Il capitano Graffer, freddo e deciso, quando viene a trovarsi impotente di fronte all'avversario per l'inceppamento delle armi, manovra per portarsi all'investimento, pur sotto il fuoco delle armi difensive del nemico, lanciandosi col paracadute nel momento stesso in cui l'urto avviene.
E’ una decisione presa sul momento.
Il tenente Serotini, trasteverino, adorava la sua città natale;
riservato, ma deciso, aveva più volte dichiarato che, se gli americani fossero venuti a bombardare Roma, non sarebbe mai tornato a terra senza averne abbattuto qualcuno, a costa magari di investirlo e precipitare con lui.
Più sfortunato di Graffer, le paurose ferite riportate negli ultimi metri dell'avvicinamento e gli strappi che le esplosive nemiche gli avevano fatto nel paracadute, non gli permisero di giungere vivo a terra.
Anche nei ranghi dell'Esercito e della Marina possiamo trovare episodi analoghi di totale dedizione al dovere e di amore per la patria, spinti fino all'estremo sacrificio.
Rimangono tuttavia casi singoli, ognuno dei quali rappresenta la personale reazione dell'individuo a situazioni del tutto eccezionali, raramente meditate e studiate in anticipo, piu spesso esaminate e risolte li per li.
Tutto questo pone le gesta dei nostri soldati, degli occidentali in genere, in netto contrasto con il suicidio collettivo dei piloti giapponesi, suicidio che, anche se volontario,è stato indubbiamente il frutto di una evidente forma di imposizione dovuta alla particolare formazione mentale e all'annullamento della personalità dell'individuo, caratteristica dell'istruzione militare e sociale giapponese.
Eppure, anche tra gli stessi attori di quel dramma collettivo si saranno verificati casi, se non proprio di ribellione, almeno di «sensazione di ingiustizia » e indubbiamente appare strano, a noi occidentali, che uno degli autori esprima quasi una certa meraviglia per il fatto che non tutti i piloti «comandati al suicidio» accettassero subito e con entusiasmo l'alto onore di andare a sfracellarsi contro una nave americana.
Indubbiamente, le ribellioni a quegli ordini non erano ammesse e forse nemmeno pensate.
I sentimenti che questo libro suscita nel lettore spingono alla meditazione:
quel senso di ribellione e di avversione che provoca, si estende pian piano e passa dalla tattica specifica del suicidio al più vasto sistema che l'ha originata, per affrontare poi il concetto stesso della guerra.
Corrado Ricci