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    Dalla Ditta Righi & C. alla S.A. Officine Meccaniche Reggiane.

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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:13 pm

    Dalla Ditta Righi & C. alla S.A. Officine Meccaniche Reggiane. Reggiane_F1-vi
    Il grado di sviluppo industriale di una provincia ad economia tipicamente agricola, come quella di Reggio Emilia era, negli anni che seguirono la raggiunta unità politica d’Italia, quasi trascurabile.
    Le poche attività di carattere industriale riguardavano la trasformazione di materie animali, la lavorazione di materie vegetali, l'estrazione di sostanze minerali:
    caseifici, piccoli stabilimenti di manipolazione delle carni suine, di filatura della seta, della concia delle pelli, alcune tintorie e cartiere, stabilimenti per la fabbricazione dei mattoni, della calce, del gesso, del cemento.
    Intorno al 1870 la manodopera complessivamente impegnata in tali occupazioni era di poco superiore alle 3000 unità;
    in quegli stessi anni la popolazione della provincia era di circa 350.000 abitanti.
    Nonostante il fiorente sviluppo raggiunto dall'agricoltura, lo squilibrio tra l’incremento della popolazione e le reali possibilità di occupazione aumentò di intensità negli ultimi decenni del secolo.
    La capacità di assorbimento delle poche industrie esistenti si manteneva assai limitata, mentre mancavano completamente nuove iniziative.
    Per tali ragioni più grave era la situazione della città rispetto a quella del contado;
    La Giustizia, quotidiano socialista cittadino, richiamava l'attenzione dei suoi lettori sul fenomeno:
    “ avete mai pensato... che tutta o quasi tutta la ricchezza del nostro comune viene dalle ventisette ville che circondano la nostra città e dove lavorano due terzi della popolazione?
    La città non ha industrie e vive a spese della campagna”.

    La Reggio industriale di fine '800 era infatti così ironica mente presentata:
    “ una fabbrica di fiammiferi e di spazzole del sig. Agazzani, una modesta fabbrica di forme da scarpe, una latteria del sig. Arturo Faccioli:
    ecco l'industria reggiana.

    Un esercito di poveri e di assistiti figurava iscritto nei registri delle Congregazioni di Carità e delle Opere Pie.
    La piaga dell'accattonaggio affliggeva la città, e nel periodo invernale, quando, per la cessazione dei lavori stagionali in campagna , la situazione diveniva più critica, per i molti prestatori d'opera disoccupati un'abbondante nevicata poteva rappresentare una vera risorsa. Costretta a vivere in quelle condizioni di disoccupazione cronica e di sottoccupazione, la maggior parte dei proletari abitava dimore denunciate da qualche opuscolo del tempo come:
    “ tuguri e ricetti degni, più che d'esseri ragionevoli, di immondi animali”.

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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:14 pm

    Per sottrarsi ad una tale sorte di miseria endemica, si ingrossarono così progressivamente i gruppi dei senza lavoro che emigravano in Francia, Svizzera, Germania, Romania.
    Soltanto nel primo decennio del secolo XX si ebbero precisi sintomi del mutare delle cose;
    e un susseguirsi infatti di coraggiose iniziative, che concorsero a dotare la città e la provincia di un primo e scheletrico apparato industriale, ne salutò l'aurora.
    Quelli del resto erano gli anni in cui, nel nostro paese, erano venute a maturazione, seppure con grave ritardo, le condizioni necessarie per stimolare ed incoraggiare un ceto imprenditoriale ed industriale ancora in fasce.
    Un ruolo di notevolissima importanza, nei primi passi verso una industrializzazione dell'economia reggiana, tenne allora la Cassa di Risparmio.

    “ All'inizio del nuovo secolo - scriveva in proposito A. Cerlini - la Cassa di Risparmio di Reggio Emilia rappresentava una notevole forza propulsiva nell'economia della regione emiliana e poteva svolgere un'azione di potenziamento sempre maggiore nel campo agricolo prima e in altri campi di poi.
    Cominciò col distribuire prestiti alle minori Casse Rurali, ad accordare risconti alle Cooperative di agricoltori proprietari, di coltivatori diretti e di affittuari.
    Concesse mutui ai Consorzi di Bonifica e d'irrigazione, ed altri mutui accordò ai comuni minori della provincia, perché potessero migliorare i pubblici servizi”

    Alle concessioni di prestiti che, nel corso dell'ultimo ventennio del secolo passato, avevano permesso alla amministrazione provinciale la costruzione di tronchi ferroviari per la congiunzione del capoluogo con i principali centri della provincia, Bagnolo, Novellara, Correggio, si aggiunse infatti un concreto appoggio all'impianto ai opifici, anche con l'assegnazione di premi di incoraggiamento.
    Gli appoggi e gli incoraggiamenti non caddero nel vuoto, ma, come per la costituzione della fabbrica di concimi e acido solforico dei fratelli Giovanni e Natale Prampolini a Villa Ospizio, della Latteria Faccioli, dello stabilimento serico Marchetti, così rappresentarono lo stimolo per l’impianto, nell'estate del 1901, di un primo capannone, adibito a lavorazioni meccaniche, nei pressi della stazione ferroviaria.
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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:16 pm

    Non era stato dato forse gran peso, da parte dei poco numerosi lettori de “L'Italia Centrale” a quell’appello apparso, circa un anno prima, nel numero del 7 ottobre:
    “ non potrebbe la Cassa di Risparmio offrire un premio di qualche decina di mille lire a quel privato, non importa se reggiano o forestiero, o a quella società seria e solvibile che impiantasse in Reggio uno stabilimento industriale di importanza ?
    Non potrebbe anche il municipio concorrere con l'offrire l'area occorrente all'impianto di tale industria?
    Allettati da questi premi ed agevolezze, non credete che qualche intraprendente capitalista o qualche società non preferirebbe l'impianto di una industria qui da noi piuttosto che altrove?” .

    Invece quella esortazione alla Cassa di Risparmio, al municipio di Reggio e ad un qualche intraprendete capitalista, lanciata dal quotidiano liberale cittadino, che si era fatto interprete delle voci di alcuni “ illuminati borghesi “ era stata coronata da pieno successo.
    La Cassa di Risparmio, nel gennaio 1901, con l'intento di dare maggiore impulso alla vita industriale della città, aveva dunque stanziato a fondo perduto la somma di L. 50.000 per la creazione di un'officina meccanica che occupasse almeno 50 operai.
    L’intraprendenza capitalista era stata trovata nell’ingegner Romano Righi, che aveva accolto l'offerta ed impiantato una fonderia con annessa officina meccanica, che occupava, all’inizio della produzione, 62 operai, dei quali 25 reggiani, successivamente aumentati a 200.
    L'officina, specializzatasi ben presto nella costruzione di carri ferroviari, si trovò nel corso del 1904, per l’aumento delle ordinazioni, di fronte all'alternativa di contenere la propria struttura entro i limiti di potenzialità del suo capitale (elevato dalle 125.000 iniziali aL. 325.000) oppure di trovare una più larga base finanziaria.
    Il 1° dicembre 1904 veniva decisa la costituzione di una società sotto il nome di Officine Meccaniche Reggiane con un capitale di L. 600.000, sottoscritto per buona parte dalla
    Banca Commerciale Italiana, per l'esercizio di una fonderia e di una piccola officina meccanica, il complesso era dislocato su di un'area di mq. 4000, dei quali 1250 coperti, e disponeva di una forza motrice di 50 HP.
    La costituzione delle Reggiane, per quanto frutto di una situazione industriale e finanziaria contingente, rientrava nel quadro di quella generale trasformazione economica ed industriale che, nei primi anni del nuovo secolo, cominciò con maggiore evidenza ad interessare il nostro paese.
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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:16 pm

    Con ritmo sempre crescente centinaia di milioni vennero investiti in tutti i rami dell'industria;
    le nuove creazioni, gli aumenti di capitale, le fusioni, le combinazioni, gli assorbimenti si moltiplicarono di giorno in giorno e vennero impiantati poderosi stabilimenti.
    Tuttavia una spiegazione più rapida del fenomeno dell’ improvviso aumento di ordinazioni nel campo delle costruzioni ferroviarie, che concorse in modo decisivo alla costituzione della Società di Reggio Emilia, deve essere ricercata nella situazione nella quale allora si venne a trovare quel particolare settore dell’ industria meccanica.
    Mentre negli altri paesi europei, Inghilterra, Belgio, Francia, Svizzera, lo sviluppo delle reti ferroviarie era stato accompagnato da un corrispondente sviluppo dell'industria produttrice di locomotive e di veicoli ferroviari, in Italia i rivolgimenti politici, susseguitisi nei primi tre quarti dell'ottocento, avevano assorbito tutte le migliori energie del paese, ritardandone il progresso industriale, tanto che le linee ferroviarie avevano già raggiunto uno sviluppo considerevole prima che sorgessero stabilimenti capaci di sopperire ai loro bisogni.
    Ne era derivato nei paesi europei ricordati ed anche in Germania, dove le fabbriche di locomotive e quelle di veicoli avevano ben presto costituito sindacati i quali, pel tramite
    della ditta più importante, trattavano direttamente col governo e d'accordo stabilivano l'equa ripartizione degli ordini, i prezzi, ed i termini di consegna, che tutte le ordinazioni erano commesse all'industria nazionale;
    in Italia invece ebbero incontrastata possibilità di affermazione le case estere che introdussero per molti anni liberamente i loro prodotti, formandosi senza contrasto una sicura base commerciale.
    Quando poi sorsero, le prime fabbriche nazionali si trovarono la strada sbarrata dai colossi delle case straniere, già vantaggiosamente piazzate, ai quali le compagnie ferroviarie seguitavano ad accordare preferenza, perché trovavano più tranquillante affidare le ordinazioni a case già conosciute e provette, anziché a ditte appena sorte e non ancora sperimentate .
    Gli interessi degli industriali meccanici erano indubbiamente ancora di troppo poco peso, perché il governo si preoccupasse eccessivamente di proteggere quella industra allora
    nascente.
    Un primo timidissimo passo fu compiuto con le convenzioni ferroviarie del 1885, nelle quali venne imposto alle società che gestivano le reti italiane di accordare la preferenza a ditte nazionali, quando nelle gare i loro prezzi fossero risultati di non oltre il 5% superiori a quelli dell'industria straniera.
    In realtà quella protezione del 5% contava ben poco;
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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:17 pm

    le case straniere infatti, le quali avevano già assicurato dal proprio paese un regolare lavoro, cospicuo ed equamente rimunerato, erano in grado di poter vendere per l'esportazione a prezzi ridottissimi, rinunziando all'utile diretto e accontentandosi dell'indiretto, che costituiva per loro un vantaggio non disprezzabile in quanto consentiva, la ripartizione delle spese generali sopra una maggior massa di produzione.
    La situazione delle ferrovie italiane era stata portata alla ribalta da un memoriale presentato nel novembre 1899 dalla Società Mediterranea ed Adriatica di esercizio delle reti, nel quale si dimostrava l'urgenza assoluta di provvedere subito, con stanziamenti di centinaia di milioni, per evitare pericoli gravissimi allo scadere delle convenzioni del 1885, che fissavano i limiti di età per il mantenimento in servizio efficiente del materiale mobile ferroviario poiché il problema non parve richiamare minimamente l'attenzione di
    “ un governo pigro, sonnolente, testardo, di uomini preoccupati da piccole cose e piccoli intrighi, i quali si svegliavano solo al rumoreggiare della piazza o quando si vedevano vicini ad affogare “
    la Società Mediterranea, in una pubblicazione ufficiale del gennaio 1904, dichiarava le stazioni ed i binari “ in tali condizioni di insufficienza da rendere impossibile un servizio normale “, le linee e specialmente le arterie essenziali della Liguria “ talmente impari ai bisogni “ da destare serie preoccupazioni non solo per la regolarità, ma per la sicurezza dell'esercizio, il materiale mobile, “un museo di antichità vecchio e disadatto, reggentesi a furia di costose riparazioni e sperpero del denaro pubblico”.
    Con la legge frettolosamente sancita del 22 aprile 1905, l’ amministrazione dello stato assumeva l'esercizio delle ferrovie in situazione catastrofica per quanto appunto riguardava
    la trazione ed il materiale rotabile;
    perciò, valendosi delle facoltà consentite dalla stessa legge, appena organizzata, dispose per gli acquisti del materiale riconosciuto necessario nell’ ultimo periodo delle precedenti gestioni.
    L'on. Maggiorino Ferraris rilevava, in un suo articolo su lo sfacelo ferroviario in Italia come il materiale mobile in Italia si trovasse in condizioni miserande rispetto ai limiti di età;
    mentre infatti le ferrovie prussiane di stato eliminavano dal servizio le locomotive quando queste avessero superato i 21 anni, le vetture i 26, i cari i 35, quantunque le loro funzioni del 1885 avessero fissato i limiti inverosimilmente elevati di 40, 50,60 anni di età, si avevano allora in Italia nientemeno che 252 locomotive, 1156 carrozze e 5901 carri che avevano superato i 40 anni, senza calcolare 210 locomotive fra i 30 e 35 anni, che erano quasi inservibili.
    Se si teneva conto del materiale che, avendo superato i limiti della decrepitezza fissati dalle convenzioni del 1885, avrebbe presto dovuto essere eliminato dal servizio, delle necessarie rinnovazioni e dell'aumento del traffico, si sarebbe dovuto calcolare che nel biennio 1905-1907 sarebbe stato necessario provvedere ad una fornitura per la sola rete di stato di 1230 locomotive, 3070 carrozze viaggiatori, 16.500 carri merci e 700 bagagliai con una spesa minima di 240.000.000 di lire.
    Da tutti ammessa e chiaramente riconosciuta l'impellente necessità di rimpolpare con le dovute ordinazioni di materiale nuovo il dissestato patrimonio mobile ferroviario, rimaneva
    però apertissima un'altra scottante questione:
    a chi affidare il grosso stock di ordinazioni;
    alle ditte nazionali, dalla salute finanziaria ancora precaria, dalla dubbia capacità di rispettare i termini di consegna, oppure all'industria estera, già affermatasi sul nostro mercato, e che avrebbe garantito, oltre al rispetto di tutte le clausole, costi di produzione inferiori a quelli delle ditte nazionali ?
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    Messaggio  michele Dom Nov 28, 2010 10:18 pm

    Vi era stato infatti chi, a proposito di ordinazioni concesse all'industria nazionale, aveva affermato che con i nostri industriali si era largheggiato in generosità
    “ con grave danno dell'erario che aveva pagato 1,75 quelle stesse forniture che gli stranieri avrebbero dato per 1,25”.
    In un progetto successivo alla legge del 22 aprile 1905, presentato dall'on. Carmine, la formulazione del principio di una certa preferenza da accordarsi all'industria nazionale, che
    avrebbe avuto equamente ripartite fra gli stabilimenti congeneri le nuove ordinazioni, era tuttavia accompagnata dal postulato condizionante secondo il quale, se il risultato delle gare e delle trattative private avesse dimostrato che le condizioni dell'industria nazionale non permettevano di ottenere prezzi convenienti e rapide consegne nelle forniture, la Direzione Generale avrebbe indetto gare internazionali, alle quali sarebbero state invitate anche le ditte italiane.
    Alle ditte nazionali, per la verità, venne concesso un margine del 5% di vantaggio e si stabilì che le nostre industrie sarebbero state attribuite le commesse, o comunque gran parte di esse se le loro offerte fossero state uguali o superiori del 5% a quelle delle case estere.
    Inoltre, per favorire l'industria nazionale, l’amministrazione ferroviaria statale, accogliendo le richieste dei fornitori italiani, i quali in un memoriale presentato al governo, rilevavano come sulle risultanze delle gare internazionali fattesi nell'ultimo ventennio, fosse insufficiente la protezione accordata alla fabbricazione delle locomotive in Italia nella misura del 5%, deliberò di aumentare il favore all'industria italiana, con la clausola che il confronto (con l'aumento del 5%) non fosse fatto in base alla più bassa delle offerte etere, bensì in base ad una media delle più alte.
    Dal 1905 al 1908 le FF.SS. assunsero dunque impegni per grossi acquisti.
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    Messaggio  michele Mer Dic 01, 2010 11:10 pm

    I primi esercizi industriali.
    La politica di ammodernamento ed incremento del materiale ferroviario, decisi dalle FF.SS., aveva dunque rappresentato, come si è scritto, il principale incentivo ad un ampliamento delle Officine Reggiane, le quali, come afferma un giornale cittadino,nel novembre 1906 già “ segnavano vigorosamente la loro linea ascensionale “;
    e a testimonianza di ciò vi era il nuovo aumento di capitale della società a 4 milioni e della"manodopera ad 800 unità.
    Tuttavia la struttura del giovane organismo, sotto lo slancio di vitalità, era costantemente minacciata dal disservizio ferroviario:
    i ritardi nella consegna del carbone costituivano infatti la regola più che la eccezione, con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare;
    E poco mancò che un prolungato ritardo nella consegna del combustibile da parte delle FF.SS., a causa della solita “baraonda ferroviaria”, non provocò la chiusura, seppure momentanea, delle Officine nel dicembre dello stesso anno;
    era in compenso sorprendente la tempestività sfoggiata dall'amministrazione delle FF.SS. nell’infliggere alle “Reggiane” severe multe per i conseguenti ritardi nella consegna dei carri e dei vagoni ferroviari.
    L'afflusso del combustibile necessario andò gradatamente normalizzandosi nel corso dell'anno successivo.
    Come appare chiaramente dal bilancio, presentato dai sindaci all'assemblea generale dei soci, alla fine del 1907 le Officine Reggiane offrivano un lusinghiero quadro:
    il numero dei veicoli costruiti e consegnati nell'esercizio 1907 ammontava a 900, per un
    importo di circa 7 milioni di lire;
    nello stabilimento erano in costruzione 1600 veicoli per un importo totale di 14 milioni di lire;
    il bilancio chiudeva col saldo utile di 502.789,93 Lire.
    Nella relazione dei sindaci, quasi nascosta e trascurata fra le cifre tanto più significative ed eloquenti agli orecchi degli azionisti, compariva la notizia dell'ultimazione di alcuni impianti per la riparazione di veicoli e di locomotive, e di rilevanti impegni quinquennali in proposito con le FF.SS., i quali, pur rappresentando per il momento una “ fonte secondaria di guadagno “, avrebbero conservata aperta una importante via da seguire il giorno in cui le commissioni di materiale nuovo avessero cominciato a scarseggiare.
    Questo provvedimento doveva dimostrarsi, a pochissima distanza di tempo, assai oculato. Infatti le difficoltà incontrate nel suo sviluppo da questo particolare ramo dell’industria meccanica nazionale erano state e restavano molteplici.
    Oltre la sempre temibile concorrenza delle case estere e le difficoltà di carattere contingente, rappresentate da scioperi di indole politica ed economica, e da ritardi fortissimi nei ricevimenti della materia prima, causati dal disservizio ferroviario, una gravissima difficoltà di ordine tecnico gravava, come una cappa di piombo, sul destino di parecchie aziende sorte nel favorevole momento in cui lo stato aveva assunto la gestione delle ferrovie:
    l'essersi parecchi fornitori accaparrati ordinazioni di materiale rotabile largamente eccedenti la potenzialità dei propri stabilimenti.
    A ciò si aggiunga che in molti casi le somme destinate alla costruzione di nuovi stabilimenti rimanevano a lungo infruttuose per la deficienza non solo di mano d’opera tecnica, per la immensa richiesta derivante dallo sviluppo di tutta, l’ industria, ma proprio dei manovali addetti ai lavori di ingrandimento intrapresi;
    essi infatti, specialmente durante la primavera e l'estate del 1907, erano stati assunti per i lavori stagionali nelle campagne in quantità superiore agli anni precedenti.
    La conseguenza di tutto ciò fu l’impossibilità da parte di molte ditte di rispettare il termine di consegna firmato, con la conseguente applicazione da parte dell'amministrazione delle ferrovie delle penalità e delle multe previste nei contratti di aggiudicazione.
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    Messaggio  michele Mer Dic 01, 2010 11:11 pm

    Tuttavia l'autentico tallone d'Achille dell’ industria meccanica di materiale ferroviario era rappresentato dall'avere come unico committente d'importanza lo Stato;
    si trattava di una specie di “ monopolio a rovescio”, perché di fronte ad un numero indefinito di produttori stavano … pochissimi od un solo committente di importanza.
    La specialità delle forniture ferroviarie è infatti tale che un'officina organizzata per fare locomotive e veicoli non può fare altro;
    per servire ai privati bisognerebbe che tutta l'azienda si trasformasse, mutando le sue strutture e il suo corredo di macchine.
    Nel corso dell'anno 1908, le ordinazioni di nuovo materiale ferroviario cominciarono a diminuire sensibilmente:
    erano gli effetti di una crisi più generale, che investiva improvvisamente, in quell'anno, l'industria italiana, che pareva avviata a vertiginosa ascesa.
    Le cause della crisi erano molteplici.
    Negli anni immediatamente seguenti il 1904, il capitale complessivo delle società anonime cotoniere e meccaniche si era triplicato;
    si era raddoppiato quello delle metallurgiche e delle banche, e si era notevolmente accresciuto quello delle industrie elettriche, chimiche, automobilistiche, dei trasporti, della lana;
    nel complesso dal 1904 al 1907 furono investiti nell'industria, fra nuove creazioni ed ampliamenti, più di 2.000 milioni.
    Il capitale delle Officine Reggiane, per esempio, per iniziativa della Banca Commerciale Italiana, fu quadruplicato in 15 mesi.
    Col 1905, il desiderio di progresso si era trasformato in una vera e propria frenesia ed aveva invaso l’elemento industriale che, dimenticando i funesti esperimenti di un passato
    non remoto ed attratto dalle lusinghe di una prosperità falsa ed effimera com'è quella che viene dai guadagni alla Borsa, credette di poter trarre un illimitato profitto d'alla forza produttiva del paese:
    “quanti aumenti irriflessi di capitale, quante sfrenate trasformazioni di ditte individuali in società anonime con stime fantastiche del loro patrimonio! “.
    Ben presto infatti quella parte dell'edificio, che era una supercostruzione, accennò a crollare. La prima caduta avvenne proprio nelle Borse che tante illusioni avevano creato e tanta
    parte avevano avuto in quel sogno di prosperità industriale e finanziaria;
    dalle Borse la crisi passò alle industrie.
    Nel 1908, assestatosi il movimento di espansione e diminuiva perciò quella domanda viva di prodotti industriali che aveva creato lo sviluppo eccessivo degli stabilimenti, si manifestò tra produzione e consumo un fortissimo squilibrio.
    Le industrie più colpite dalla crisi furono naturalmente quelle che più avevano approfittato del movimento di espansione:
    le industrie manifatturiere, le industrie delle automobili e le industrie meccaniche, queste ultime appunto per la diminuzione delle ordinazioni da parte delle FF.SS., in vista delle quali
    molte officine erano state create, per la diminuzione del consumo, per il costo elevato di produzione, ed infine per l’ influenza di alcuni errori iniziali che già rilevammo.
    Le “Reggiane”, che pure non si erano mantenute estranee a quel “ desiderio di progresso “, intervenendo, nel corso del 1907, nella costituzione della S.A. Metallurgica Ossolana, e della Anonima Celeste Longoni di Reggio Emilia, ed assorbendo gli stabilimenti per la costruzione di materiale ferroviario della ditta Nobili di Bologna, si trovarono però in grado di reggere bene al contraccolpo del fenomeno, grazie agli impianti già predisposti per la riparazione di materiale
    ferroviario che permisero l'assunzione di importanti e vantaggiose commesse.
    L'azienda doveva indubbiamente offrire garanzie di stabilità presente e futura, se, proprio in quell'anno, veniva deciso di affrontare il grave problema degli alloggi per gli operai della fabbrica, che provenivano in gran parte dalla campagna e dalla provincia:
    per l'appunto si diede allora inizio alla costruzione di quattro gruppi di case popolari, nelle quali presero alloggio un centinaio di famiglie delle maestranze.
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    Messaggio  michele Ven Dic 03, 2010 12:04 am

    La costituzione della S.p.A. Reggiane Officine Meccaniche Italiane.
    Nel successivo 1909, sebbene continuassero a diminuire le commesse di materiale nuovo da parte delle FF.SS., le Officine, grazie alle commesse di materiale da riparare, consolidarono le proprie strutture, aumentando notevolmente il numero degli operai;
    ed i sindaci della società, nella consueta relazione che accompagnava la presentazione del bilancio, dichiararono “ essersi raggiunte risultanze economiche superiori certamente a qualsiasi aspettativa “, come stava a dimostrare il saldo utile del bilancio di L. 602.644,08.
    Le Reggiane disponevano in quel momento di un portafoglio di commesse tale da dare completa tranquillità per l'avvenire e da consigliare i dirigenti a stipulare con la Società
    Emiliana Esercizi Elettrici un importante contratto a forfait.
    Meno felici furono però per le Officine gli anni che seguirono;
    e, del resto, si trattò di un periodo poco favorevole per tutta l'industria nazionale.
    Nel settore della meccanica, per esempio, il triennio 1911-1913 registrò una sensibile diminuzione nei nuovi impianti ed una riduzione dei capitali azionari.

    Nel settore dell'industria del materiale ferroviario, particolarmente colpita per la diminuzione delle ordinazioni da parte delle FF.SS.,compensata solo in piccola parte da ottenute aggiudicazioni di materiale per l'estero, le difficoltà congiunturali fecero naufragare complessi improvvidamente e artificiosamente creati negli anni del boom ferroviario, come una grossa officina di Napoli, e posero altre aziende nella necessità di essere incorporate ed assorbite da organismi più sani.
    Anche le Officine Reggiane furono al centro di una tale operazione:
    sul finire del 1912 procedevano infatti all'assorbimento della SOFIA (Società officine Ferroviarie Italiane Anonima), mutando, con deliberazione del 14 marzo 1913 la propria ragione sociale in Reggiane Officine Meccaniche Italiane S.p.a., ed aumentando il capitale sociale a lire 7.000.000.

    Chiudendosi l'anno 1913 le Officine, dotate di una forza motrice di 1500 Hp e di una forza lavoro pari a 2000 addetti, avevano raggiunto un fatturato complessivo di circa 12 milioni. L'operazione di assorbimento della SOFIA era sta condotta in porto superando notevoli difficoltà finanziari, in un momento particolarmente difficile, come si è detto, e di depressione per la nostra industria.
    Le medie generali dei profitti delle società italiane e l'andamento dei titoli azionari, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, rivelavano che i sintomi della crisi del 1907 non erano stati del tutto smaltiti.
    Dopo la flessione del 1907, che aveva provocato una sensibile caduta dei profitti delle società per azioni, a parte una leggera ripresa nel 1908, la media dei profitti aveva ripreso a diminuire fino al 1911, anno in cui si verificarono “liquidazioni e svalutazioni in vari rami e riduzioni di profitti medi nella maggioranza delle categorie “.
    Si ebbe una ripresa nel 1912, ma di nuovo un calo nel 1913 ed uno assai più sensibile nel 1914.
    Contemporaneamente si ebbe un tracollo dei valori di Borsa dei titoli azionari;
    i titoli “Reggiane” (valore nom. : 100), che avevano avuto un andamento soddisfacente per tutto il 1910, oscillando intorno a quota 109, e che nel marzo 1911 avevano raggiunto quota 114, avevano cominciato a destare preoccupazioni nelle primavera del 1912, registrando valori
    progressivamente discendenti: da 98 a 81 nel solo mese di marzo, a 74 nel giugno, a 60 nel settembre, a 52 nel dicembre, a 49,50 nel febbraio 1913.
    Orbene, aggiungendosi la pesante pressione fiscale, si può concludere che alla vigilia della guerra la maggior parte delle società italiane si trovava in condizioni di depressione o tutt'al più di lenta ripresa, appunto “comprovata dai bassi profitti degli ultimi esercizi, dalle modeste proporzioni delle riserve, dalla depressione dei corsi dei titoli “.

    Tratto da :
    Un'Industria, una città
    Cinquant'anni alle Officine Reggiane
    Sandro Spreafico


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